Fini conquista sul campo il diritto alla successione. Strappa ovazioni tali, al congresso del Pdl, che nessuno può competere: non Tremonti, per quanto applaudito, e nemmeno Formigoni che viene sommerso dal tripudio quando grida basta alla Lega, e basta anche coi nominati dall’alto, si torni alle preferenze. Re Silvio sembra aver scelto, sarà Gianfranco l’erede designato. Monta sul palco, bacia il presidente della Camera, gli leva in alto il braccio come si fa col pugile vincitore, gli pone infine la corona sul capo: «Questo anche per spazzare via tutte le malizie sul fatto che noi due non ci vogliamo bene e non abbiamo gli stessi ideali...». E’ la scena madre che verrà ricordata. Già prima, mentre Fini si esibiva dal palco, il maxischermo mostrava Berlusconi capo-claque: si spellava le mani, ostentava il segno okay con le dita, sussurrava parole ammirate a Donna Elisabetta Tulliani, la compagna di Gianfranco... Dopo il discorso, inno di Mameli e brindisi in privato per festeggiare. Chiacchiere di un grande accordo strategico stipulato tra i due.
Se poi nell’intimo si sente minacciato, il Cavaliere lo maschera bene. Perché Fini riconosce in lui il leader del presente, gli accredita un tratto di «lucida follia». Però lo carica di «onori e oneri», come si conviene a un capo. E gli presenta da subito tre cambiali. Lo sollecita a esprimersi sul referendum elettorale, se Bossi darà di matto pazienza. Gli chiede di mettere il Pd alla prova della grande riforma costituzionale. Lo sfida a sconfessare la legge sul testamento biologico, appena approvata al Senato su input papale. Fini è abile, non solo nell’eloquio. Si propone come voce fuori dal coro, perfino minoritario dentro il partito, appassionato al dibattito delle idee che formula in tono riguardoso: «Se posso dare un suggerimento a Berlusconi...». In realtà sa bene di mietere consensi. Ne vedremo delle belle quando il bio-testamento approderà alla Camera: sono una folla i deputati che la pensano come Fini, questa legge «è più da Stato etico che da Stato laico». La laicità è un’altra cosa, prova a obiettare il presidente del Senato Schifani, certo «non può essere omissione di responsabilità». Ma dai boatos di Montecitorio la legge sembra al binario morto. Idem sul referendum, il cuore della base batte per Fini, non c’è nulla di male nel dire sì all’eliminazione dei partiti intermedi, se vincesse l’astensionismo sarebbe solo per «realpolitik» verso la Lega. Con la quale comunque, insiste il presidente della Camera, Berlusconi dovrà prendersi la briga di «discutere perché questo è il peso della democrazia».
Sulle riforme, Fini compie un capolavoro. Vince le resistenze di Berlusconi presentandole come una sfida alla sinistra «per vedere se è riformatrice o nostalgica». Va incontro al premier esaltando la «democrazia che decide, non si limita a discutere», e proprio per rafforzare i poteri del governo gli consiglia di «rilanciare una grande stagione costituente» (D’Alema prontissimo se ne compiace). Commenta con arguzia il ministro Rotondi: «Tecnicamente perfetto, il mio omonimo Gianfranco apre al Pd senza darlo a vedere». Isolato? Nemmeno un po’. Anche nel campo berlusconiano c’è chi sottoscriverebbe, primo tra tutti il capogruppo alla Camera Cicchitto, ponte tra il Cavaliere e il Delfino. Il resto del discorso è declinato al futuro, Fini indica orizzonti per il paese. Un patto tra generazioni che presuppone un’Italia coesa, «con ricadute sulla previdenza anche se non sta a me dirlo...». Un secondo patto di cooperazione tra capitale e lavoro (Cossiga lo accusa di neo-corporativismo). Un terzo patto tra Nord e Sud, che significa «libertà dalle mafie e dal ceto politico dedito al sottopotere». Tutti in piedi ad applaudirlo, piccoli ras locali compresi. E l’immigrazione, «un processo storico da guidare» anche riportando l’educazione civica nelle scuole. Risultato: oggi Berlusconi faticherà a svicolare. Quando tornerà sul palco a mezzogiorno per la replica, qualcosa sulle tre cambiali dovrà pur dire. Con qualche rimpianto. Se avesse indicato tracce di futuro nella relazione introduttiva, forse il congresso avrebbe preso altri binari. Invece Berlusconi ha ceduto a Fini il compito di dettare l’agenda. E solo un grande discorso può restituirgli intero lo scettro.
Ugo Madri per la Stampa
Se poi nell’intimo si sente minacciato, il Cavaliere lo maschera bene. Perché Fini riconosce in lui il leader del presente, gli accredita un tratto di «lucida follia». Però lo carica di «onori e oneri», come si conviene a un capo. E gli presenta da subito tre cambiali. Lo sollecita a esprimersi sul referendum elettorale, se Bossi darà di matto pazienza. Gli chiede di mettere il Pd alla prova della grande riforma costituzionale. Lo sfida a sconfessare la legge sul testamento biologico, appena approvata al Senato su input papale. Fini è abile, non solo nell’eloquio. Si propone come voce fuori dal coro, perfino minoritario dentro il partito, appassionato al dibattito delle idee che formula in tono riguardoso: «Se posso dare un suggerimento a Berlusconi...». In realtà sa bene di mietere consensi. Ne vedremo delle belle quando il bio-testamento approderà alla Camera: sono una folla i deputati che la pensano come Fini, questa legge «è più da Stato etico che da Stato laico». La laicità è un’altra cosa, prova a obiettare il presidente del Senato Schifani, certo «non può essere omissione di responsabilità». Ma dai boatos di Montecitorio la legge sembra al binario morto. Idem sul referendum, il cuore della base batte per Fini, non c’è nulla di male nel dire sì all’eliminazione dei partiti intermedi, se vincesse l’astensionismo sarebbe solo per «realpolitik» verso la Lega. Con la quale comunque, insiste il presidente della Camera, Berlusconi dovrà prendersi la briga di «discutere perché questo è il peso della democrazia».
Sulle riforme, Fini compie un capolavoro. Vince le resistenze di Berlusconi presentandole come una sfida alla sinistra «per vedere se è riformatrice o nostalgica». Va incontro al premier esaltando la «democrazia che decide, non si limita a discutere», e proprio per rafforzare i poteri del governo gli consiglia di «rilanciare una grande stagione costituente» (D’Alema prontissimo se ne compiace). Commenta con arguzia il ministro Rotondi: «Tecnicamente perfetto, il mio omonimo Gianfranco apre al Pd senza darlo a vedere». Isolato? Nemmeno un po’. Anche nel campo berlusconiano c’è chi sottoscriverebbe, primo tra tutti il capogruppo alla Camera Cicchitto, ponte tra il Cavaliere e il Delfino. Il resto del discorso è declinato al futuro, Fini indica orizzonti per il paese. Un patto tra generazioni che presuppone un’Italia coesa, «con ricadute sulla previdenza anche se non sta a me dirlo...». Un secondo patto di cooperazione tra capitale e lavoro (Cossiga lo accusa di neo-corporativismo). Un terzo patto tra Nord e Sud, che significa «libertà dalle mafie e dal ceto politico dedito al sottopotere». Tutti in piedi ad applaudirlo, piccoli ras locali compresi. E l’immigrazione, «un processo storico da guidare» anche riportando l’educazione civica nelle scuole. Risultato: oggi Berlusconi faticherà a svicolare. Quando tornerà sul palco a mezzogiorno per la replica, qualcosa sulle tre cambiali dovrà pur dire. Con qualche rimpianto. Se avesse indicato tracce di futuro nella relazione introduttiva, forse il congresso avrebbe preso altri binari. Invece Berlusconi ha ceduto a Fini il compito di dettare l’agenda. E solo un grande discorso può restituirgli intero lo scettro.
Ugo Madri per la Stampa
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