
http://www.repubblica.it/2009/03/sezioni/politica/partito-democratico-28/giovani-del-pd-6/giovani-del-pd-6.html
DI ROBERTO GALULLO
Premessa gridata: non ho le idee chiare su quanto sta accadendo intorno alla figura di Gioacchino Genchi. Mi arrovello, questo sì, lo ammetto: è un vicequestore – quindi un uomo dello Stato – al fedele servizio della Giustizia o un furbacchione che si è fatto prendere la mano dal ricco business delle intercettazioni?
E’ un fido consulente della magistratura o, magari con il tempo, è caduto nella tentazione di usare quei tracciati telefonici come arma di ricatto nei confronti dei potenti?
Non so dare risposte ma parto sempre dalla buona fede e poi – nel momento in cui ne scrivo e dunque in attesa di ciò che la Storia racconterà di lui tra qualche tempo – il paffuto e scaltro vicequestore in aspettativa mi sta simpatico. Sarà compito della magistratura – che su Genchi sta indagando – provare a squarciare il velo dei (mille) dubbi.
Le mie idee confuse – e diffidate cari amici di blog da chi sui giornali scrive di averle chiarissime al riguardo – non mi impediscono di mettere in fila fatti o di riflettere con voi su alcune coincidenze.
Partiamo dai fatti. Ebbene, se vi andate a leggere il decreto con il quale la Procura di Salerno ha disposto il sequestro degli atti Why Not della Procura di Catanzaro, non vi sfuggiranno alcune cose.
Certo, bisogna leggere le carte in profondità, come ho fatto per il Sole-24 Ore del quale mi onoro di essere un inviato.
In due inchieste – del 10 dicembre 2008 e del 25 gennaio 2009 - ho tracciato il quadro di quello che, sinteticamente, il quotidiano ha definito “la nuova P2” (le inchieste sono state riprese a man bassa e ne troverete tracce anche navigando su Internet). In questo comitato di interessi (chiamiamolo così), secondo Luigi De Magistris, operavano e operano personaggi e imprese per i quali il controllo delle intercettazioni telefoniche è solo un tassello di una rete molto ma molto più ampia di controllo dello Stato dal suo interno.
Nel business delle intercettazioni ha gettato l’occhio (anzi l’orecchio) da tempo (e in maniera legittima, per carità, fino a prova contraria) Finmeccanica attraverso la sua società Datamat. E chi era l’uomo che da stava seguendo – secondo il Pm Luigi De Magistris – molto da vicino il caso per l’azienda? Luigi Bonferroni, chiacchieratissimo come massone anche se lui – da ultimo in una lettera inviata al Sole – ha smentito tutto. Bonferroni siede nel cda di Finmeccanica.
Ma, per farla breve, di questo “Grande Occhio e Grande Orecchio” del “Grande Fratello” che vive (e vuole vivere) all’interno dello Stato, fanno parte anche alcuni uomini e aziende che, nell’ordine, lavorano o lavoreranno proprio per conto dello Stato nella digitalizzazione degli archivi informatici della Giustizia, della Guardia di Finanza, delle pubbliche amministrazioni, delle Procure e delle Direzioni antimafia. Molti di loro sono in odore di massoneria deviata. Alcune società addirittura infiltrate da uomini – poi allontanati – della ‘ndrangheta che, come sanno i cultori della materia, in Calabria siedono spesso e volentieri nelle logge massoniche coperte. Anzi: copertissime.
Come Luigi De Magistris ha fatto mettere nero su bianco ai colleghi di Salerno, egli stava lavorando su una rete inconfessabile e inquietante di potere parallelo all’interno dello Stato. Insomma: la nuova P2. Se questo fosse vero – e i fatti che ho messo in fila nelle due inchieste sono lì a disposizione di tutti, anche per essere smentiti, ma con altri fatti, non a chiacchiere - si capisce dunque perché proprio sulle intercettazioni, il primo e più importante tassello del “grande fratello”, tantissimi politici e il premier Silvio Berlusconi, che della vecchia P2 aveva la tessera n.1816, abbiano fatto e facciano una battaglia senza precedenti: non solo sull’uso ma anche sul ricorso esterno ai consulenti.
Con Sua Emittenza stanno – si badi bene - parti importanti del Governo e dell’opposizione (opposizione? Bah, non me ne ero mai accorto!). Di qui al nuovo testo sulle intercettazioni telefoniche (che tutte le Procure difendono, attaccando il provvedimento governativo) il passo è stato breve.
Ma perché proprio ora? Non lo sapevano da tempo i politici che Genchi (e non solo lui) lavora come consulente per le Procure (molte, in vero, non lo hanno mai amato troppo e questo va detto e ricordato). Non lo sapevano che l’uso dei file e della loro archiviazione o memoria andava regolamentato? Già, perché proprio ora…
E allora veniamo alle riflessioni, sulla scorta di una storia che – chissà perché – alcuni raccontano solo tra i corridoi delle stanze del potere.
Bene. La storia e questa e parte da una premessa: Genchi avrebbe (sottolineo avrebbe) costituito una copia di tutti i file analizzati ed elaborati negli anni. In Italia o all’estero non si sa. Certo è che non sarebbe tecnicamente impossibile. Ebbene, in questi file – copiati a propria tutela e dunque per autodifesa, secondo i benevoli, copiati per essere sempre pronto a ricattare, secondo i maligni – Genchi avrebbe copia, in particolare, dei tracciati telefonici intercorsi proprio tra il premier Silvio Berlusconi, l’ex ministro dell’Interno Beppe Pisanu, alcuni magistrati antimafia, il Procuratore Antimafia Piero Grasso e Totò “vasa vasa” Cuffaro. Non necessariamente in questo ordine, anzi.
E perché sarebbero così importanti questi tracciati? Perché – secondo molti – conterrebbero la prova-provata che Cuffaro – sotto inchiesta per i suoi rapporti in odore di mafia – veniva costantemente aggiornato sullo stato dell’arte da Berlusconi. Fantasie? Non lo so, me lo auguro, ma per certo so che il 2 maggio 2008 il Gup di Palermo Fabio Licata ordinò la distruzione di tutte le intercettazioni dei colloqui tra Berlusconi e Cuffaro avvenute tra il 2003 e il 2004. Compresa quella in cui il 10 gennaio 2004 Berlusconi tranquillizzava Cuffaro sulle indagini che si stavano abbattendo su di lui. Ne era certo, avendone parlato con l’allora ministro dell’Interno Beppe Pisanu (che però nega di aver mai parlato con Berlusconi di queste vicende giudiziarie e che nell’attuale legislatura è diventato presidente della Commissione parlamentare antimafia). Nella stessa telefonata Cuffaro avverte Berlsuconi che c’è “qualche magistrato che fa le bizze”.
Un’altra cosa che so per certo è che alla distruzione delle bobine erano favorevoli i Pm Michele Prestipino, Nino Di Matteo, Maurizio De Lucia e Giuseppe Pignatone. Contro la distruzione si schierarono il Pm Antonio Ingroia, il collega Domenico Gozzo e il capo della Repubblica di Palermo Francesco Messineo che aveva preso il posto di…Di chi? Ma di Piero Grasso, nominato l’11 ottobre 2005 a capo della Procura nazionale antimafia, dopo essere stato a Palermo tra il 2000 e il 2004. Di Piero Grasso compaiono (e scompaiono) tracce nei tabulati di Genchi legati alla vicenda Why Not.
Ora, proviamo a farci questa domanda a voce alta: ma se fosse vero che Berlusconi parlava delle inchieste con Cuffaro (e di almeno una telefonata abbiamo certezza), se fosse vero che Berlusconi apprendeva gli aggiornamenti (che girava a Cuffaro) da Beppe Pisanu, chi avvertiva Pisanu del procedere della situazione? La risposta potrebbe essere facile ma di facile in questa storia non c’è nulla e le apparenze sono fatte apposta per ingannare.
Pagherei oro per conoscere il contenuto di quelle telefonate (andate perdute per sempre?) e credo che non sarei l’unico. Il problema è che il mio oro sono pochi euro, mentre altri hanno a disposizione patrimoni inestimabili. Pazienza: mi rassegnerò nel nome della democrazia (sconfitta).
Certo, infine, è che Gioacchino Genchi negli ultimi tempi ha fatto (a caso?) di tutto per tranquillizzare Berlusconi, gridando ai 4 venti che lui del premier non ha mai seguito un solo file sui tracciati telefonici. E di Grasso? E dell’ex ministro Pisanu il cui figlio è stato assunto in una società di Antonio Saladino, principale indagato dell’inchiesta Why Not avocata a De Magistris? E di altri procuratori antimafia? Chi vivrà (forse) vedrà e magari sarebbe bello che lo stesso Genchi rispondesse alle riflessioni che – insieme a voi amici di blog – sto facendo a voce alta.
Certo, ancora, è che giornali e giornalisti in questa vicenda si stanno schierando sempre più, millantando certezze, aizzando gli animi, servendo padroni (non i lettori, però, no) e perdendo di vista le notizie. Anche quelle che arrivano lontano da Roma o da Palermo.
Come quella che arriva da Trieste, splendida città capoluogo delle serena regione Friuli-Venezia Giulia. Serena? Mica tanto, leggete qui.
Il senatore Ferruccio Saro, vecchia volpe politica del Pdl, il 3 e il 6 febbraio ha inviato due interrogazioni parlamentari urgenti al ministro della Giustizia Angelino Alfano per sapere se era a conoscenza del fatto che a Trieste c’è un “Grande Fratello”, ubicato presso una struttura del Corpo forestale, in grado di intercettare e registrare (per i dettagli vi rimando alle interrogazioni che troverete nel sito www.senato.it alla voce “Saro” oppure alla puntata della mia trasmissione “Un abuso al giorno” del 5 febbraio, che potere ascoltare e scaricare su www.radio24.it ).
Di più, anzi. Saro chiede addirittura di sapere se è vero che questo “centro di ascolto” collocato a Pagnacco (in provincia di Udine, che finora conoscevo solo perché il 6 luglio 1942 vi morì il “prefetto di ferro” Cesare Mori), abbia fatto uso di microspie, Gps, telecamere e microcamere e in quali procedimenti siano stati utilizzati.
E’ bene ricordare che essendo il Friuli-Venezia Giulia una Regione a statuto speciale, il Corpo Forestale dipende dalla Regione stessa e non dallo Stato e che, avendo lì il Corpo compiti anche di Polizia giudiziaria, le Procure possono assegnare e delegare intercettazioni (soprattutto in materia ambientale) al Corpo stesso. Questo accade anche in Sicilia dove però - me lo ha confermato l’assessore regionale all’Agricoltura e foreste Giovanni La Via - il Corpo forestale non ha nessun centro di ascolto autonomo ma fa riferimento, per locali e strutture, alle Procure.
Ora – mentre l’assessorato regionale della Regione Friuli-Venezia Giulia ha avviato un’inchiesta interna - non resta che attendere la risposta ufficiale del ministro della Giustizia Niccolò Ghedini. Pardon, scusate, volevo scrivere Angelino Alfano.
Succede che alle volte mi confonda e pensi che in realtà la materia delle intercettazioni telefoniche – che entrano nella vita di tutti, che andrebbero regolamentate e che rappresentano solo un tassello, anche se il più importante, degli strumenti che attentano alla privacy e alla vita di uno Stato – è troppo importante per lasciarla regolamentare ai politici. Soprattutto ai politici-ombra o penombra (a destra, al centro e a sinistra).
Roberto Galullo (roberto.galullo@ilsole24ore.com)
Fonte: http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com
Link: http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2009/02/i-tabulati-di-genchi-la-nuova-p2-le-telefonate-distrutte-berlusconicuffaro-e-il-grande-orecchio-friu.html
«Vorrei tanto rivedere Bologna e Barcellona, due delle mie città preferite, ma se prendessi l'aereo morirei in volo. Avrei dovuto ascoltare mia moglie Jeanne e riguardarmi da giovane. Ho condotto una vita dissipata, bevendo, fumando sigari e trascurando l'esercizio fisico».
Anche adesso Bloom non rinuncia a qualche bicchierino di Sherry d'annata, mentre parla, seduto nel luminoso appartamento di Manhattan che usa nei weekend, quando gli impegni alla Yale University, dov'è Sterling Professore di Discipline Classiche, glielo consentono. Nel grande pied-à-terre pieno di quadri e sculture di Dina Melicov, la suocera artista, il 78enne Bloom continua a tenere banco come ai vecchi tempi, quando bastava una sua recensione per creare o distruggere una carriera.
Appena la giovane docente di Letteratura russa si accomiata, bussa alla porta il tesoriere del premio Nobel, in visita da Stoccolma insieme alla giovane e bella figlia, anche lei una fan sfegatata di quello che le enciclopedie descrivono come «il più influente critico letterario statunitense».
Il «luminare della cultura occidentale» che nell'era di Internet si ostina a scrivere con la penna stilografica «perché - spiega -, un antico tremore alle mani mi impedisce di usare la tastiera. Però la mia mente è più sveglia che mai, grazie ai geni. I miei genitori erano poverissimi ebrei semianalfabeti provenienti dagli shtetl dell'Europa Orientale. Però ho avuto antenati studiosi di Talmud: una disciplina che richiede una formidabile memoria».
Come la sua, tanto leggendaria che M.H. Abrams, il celebre studioso di Romanticismo suo mentore, lo definì «lo studente più dotato che abbia mai avuto», e «l'unico capace di leggere un libro con la stessa velocità con cui lo si sfoglia».
La sua cultura enciclopedica? «Di prima mano. Ho sempre preferito la lingua originale alle traduzioni. Leggo in greco ed ebraico - antico e moderno - latino, yiddish, inglese, francese, spagnolo, tedesco, portoghese ed italiano». Proprio l'Italia, tiene a precisare, gli ha regalato (insieme alla Svezia) l'unica versione «degna» del Canone.
«Gli editori italiani e svedesi sono stati gli unici ad assecondarmi, quando i loro omologhi in America mi costrinsero, contro la mia volontà, a stilare quell'assurda hit parade, additando contratti firmati».
L'Italia, per Bloom, resta una delle culle letterarie più vitali. «Non solo Dante, Petrarca e Boccaccio - spiega -. Ma Manzoni, uno dei più grandi romanzieri al mondo. Pirandello, più innovativo di Cechov e Beckett. Campana, che poteva diventare il Walt Whitman italiano se non fosse morto così giovane. E poi il grandissimo Leopardi, un poeta al livello di Keats, Shelley e Wordsworth che ho incluso nel mio nuovo libro "Living Labyrinth. Literature and Influence", in uscita ad ottobre».
Se potesse tornare indietro, Bloom non compilerebbe più la famigerata lista. «La odio e non ha ragion d'essere - teorizza -. Il suo unico effetto è stato aumentare il numero di gente incolta che legge l'elenco ma non il libro. Come, del resto, fanno da sempre i critici letterari».
All'indomani dell'uscita del Canone, tradotto in 45 lingue e bestseller in Paesi come Brasile, Grecia, Polonia e Albania, Bloom è diventato un'icona culturale per milioni di giovani in tutto il mondo.
«Mi tempestano di telefonate ed email da Turchia, Iran, Corea del Sud, Egitto, Bulgaria, Australia - racconta -. Mi considerano il loro faro, mi implorano di scendere ancora in campo. Ma io sono stanco. Ho speso tutte le mie battaglie e ciò che dovevo dire l'ho detto: se un lavoro non possiede splendore estetico, forza cognitiva e autentica originalità, non vale la pena leggerlo. La letteratura è un'epifania individuale e non deve avere alcuna valenza di riscatto socio-politico. Questo approccio estetico alla letteratura mi ha trasformato in un paria su entrambe le sponde dell'Atlantico. Ho dichiarato guerra alle tesi femministe, marxiste e post-strutturaliste che da anni spadroneggiano nelle università, non solo in America».
L'inizio della fine, per Bloom, è stato il '68: «Ha distrutto l'estetica, introducendo una finta controcultura politically correct in base alla quale basta essere un'esquimese lesbica per valere di più come scrittore».Mentre il resto dei critici li buttava alle ortiche in quanto «elitari e non rappresentativi delle altre culture», Bloom ha riesumato i cosiddetti «maschi europei bianchi e defunti». Beccandosi l'accusa di razzismo, elitismo e sessismo. «I miei autori preferiti restano Dante, Shakespeare, Cervantes, Faulkner, Omero, Proust e Wilde - annuncia in tono di sfida -, perché espandono la nostra coscienza senza deformarla. E toccano l'individuo, senza pretese di cambiare il mondo».
Tra gli «intramontabili», Bloom annovera i grandi poeti yiddish Jacob Glatshteyn and Moyshe-Leyb Halpern ma non il premio Nobel Isaac Bashevis Singer. «Un autore mediocre. Al suo posto meritavano di vincere Chaim Grade, artefice dello splendido "Yeshiva" e Israel Joshua Singer, fratello maggiore ben più talentuoso di Bashevis che ci ha lasciato il bellissimo "I Fratelli Ashkenazi"».
Le sue crociate anti Nobel, d'altronde, sono ben note. «L'hanno dato ad ogni idiota di quinta categoria - si lamenta -, da Doris Lessing, che ha scritto un solo libro decente quarant'anni fa, e oggi firma fantascienza femminista, a Jean-Marie Gustave Le Clézio, illeggibile, a Dario Fo, semplicemente ridicolo».
Persino Toni Morrison non sarebbe degna del premio: «Siamo vecchi amici e le voglio bene. Ma dopo "Amatissima" ha scritto solo supermarket fiction, perseguendo una crociata socio-politica. Eppure nell'era di Obama è obsoleto sostenere che la pigmentazione, l'orientamento sessuale o l'etnia di uno scrittore contino».
Gli ultimi Nobel meritati? «Harold Pinter, una voce autentica, anche se discepolo di Beckett. E José Saramago, con cui ho litigato perché è uno stalinista che si è fatto espellere da Israele accusandolo di aver creato una nuova Auschwitz a Gaza».
Tra i contemporanei Bloom detesta J.K. Rowling, Stephen King e Adrienne Rich («spazzatura») e ama Cormac McCarthy («"Meridiano di sangue" è un libro straordinario»), Philip Roth («"Pastorale Americana" e "Il teatro di Sabbath" sono capolavori»), Thomas Pynchon («"L'incanto del lotto 49" è eterno»), e Don DeLillo («"Underworld" è eccellente, ma la prima parte è meglio della seconda »). Più tiepido nei confronti di Salinger: «"Il giovane Holden" continua a commuovere, ma tra 30 anni sarà demodé»
Troppo severo? «La critica letteraria non può essere impersonale», ribatte. «Al contrario di T.S. Eliot, penso che debba essere personale, appassionata e viscerale. Ma socializzare con gli autori che recensisci è un errore. Meglio conoscerli dalle loro opere». «Se non parliamo noi male dei morti, chi lo farà?», aggiunge con un sorriso birbone, passando a rassegna alcuni grandi autori scomparsi di recente.
Da Updike («uno scrittore minore con un grande stile») a Mailer («uomo generoso e appassionato ma la sua opera migliore è stata, appunto, Norman Mailer») e da Bellow («un vero pazzo, una persona per molti versi impossibile») a David Foster Wallace («molto dotato ma ogni suo libro era incompleto »).
L'unico nome che gli fa, seppur momentaneamente, perdere la flemma, è quello di Naomi Wolf, che nel 2004 lo accusò di molestie sessuali a Yale, dieci anni prima. «L'ho ribattezzata la figlia di Dracula perché suo padre e il più noto esperto di Bram Stoker. È un mostro, una barzelletta internazionale, una bugiarda patologica al soldo dei politically correct intenti a distruggermi. Non è mai stata una mia studentessa».
A difenderlo, all'indomani dello scandalo, fu l'ex discepola Camille Paglia (scoperta da Bloom, al quale deve il lancio della carriera), con un articolo di fuoco su Salon, dove fece a pezzi la guru femminista. «Camille ed io siamo rimasti molto amici - spiega -. Lei mi chiama papà».
Tra i suoi tanti fan Bloom annovera anche papa Wojtyla. «Amici comuni mi dissero che aveva letto e apprezzato tutti i miei libri e m'offriva un'udienza, se mi fossi recato a Roma. Rifiutai». Il motivo non era di natura personale. «Cristianità è sinonimo di antisemitismo, come dimostrano tutti i testi chiave del Nuovo Testamento, a partire dal Vangelo di Giovanni - dice -. E come dimostra l'atteggiamento di Benedetto XVI nei confronti del vescovo negazionista Richard Williamson».
Il suo rapporto con Dio? «Non posso capire un Dio potente ed onnisciente che abbia permesso Auschwitz e la schizofrenia», replica Bloom, il cui primogenito, Daniel Jacob, è affetto da una grave forma di schizofrenia sin dalla nascita.
Alessandra Farkas per il "Corriere della Sera"