27 agosto 2010

NO BRAND NO MONEY

Dopo aver letto la levata di scudi dell’Assessore locale contro la spettacolarizzazione della cultura bisognerebbe far sapere al vispissimo sindaco di Firenze Renzi, a quello saggio di Torino Chiamparino, all’audace Vincenzi di Genova e, perché no, all’innovativo governatore pugliese Vendola e all’immarcescibile Dellai del Trentino, tanto per restare in un’area politica omologa, che il brand del territorio è, dalle nostra parti, carta straccia. Così come sono peregrine le idee che hanno portato le amministrazioni di tutta Italia (maestre quelle francesi e tedesche) a fare a gara per inventarsi eventi che più spettacolari non si può per finire sui giornali e sulle televisioni e attrarre spettatori perché, volenti o meno, funziona così.
Mal gliene incolse quindi a Mantova che invece di darsi al gonzaghismo spinto si è buttata sulla letteratura facendo arrivare in città qualche centinaia di migliaia di visitatori per ascoltare un Barrico o un Yehoshua qualsiasi. O a Sarzana, un cittadina ligure nello spotlight per il fatto di saper trascinare ogni anno nella fortezza sin lì sottoutilizzata, filosofi (e ascoltatori) da tutto il mondo per discutere, mangiando la sfarinata, le possibili sorti dello stesso. Per non parlare della Valle d’Itria che sarebbe un cumulo di trulli e masserie fatiscenti (sul mercato oggi da 3 mila euro a mq) se non avessero considerato di portarvi le maggiori orchestre del mondo ad eseguire Verdi, di mettere gli Steinway nei cortili, i violini nei vicoli e dibattiti e incontri, letture e danze, a ogni angolo delle case bianche. Senza andar troppo lontano, nemmeno Pordenone sarebbe uscita dal cono d’ombra della Zanussi-Elettrolux se non ci fosse stata l’intuizione di portare in corso Garibaldi Avoledo e celebrities come il sommo Philip Roth e un festival del cinema muto di cui si discetta in tutto il mondo. Che questo paese sia quindi impazzito? Quale delirio spinge amministratori, associazioni e privati a promuovere festival ed eventi che, inevitabilmente, a un certo punto mostreranno la corda, come giustamente prevede il Nostro Amministratore, e che richiederanno un ulteriore sforzo creativo per mantenere la loro attrattività?
E’ che nell’aria, da tempo, aleggia una tendenza cupa globalizzata (non è una parolaccia) che porta anche i ragazzini a messaggiarsi per incontrarsi nei centri commerciali, che svuota le città a favore di non-luoghi che appaiono e scompaiono, che rende poco divertenti i mercatini delle pulci, che invita a vedere le partite solo in TV o ad andare solo dove sono previste 100 mila presenze.
Questo succede, e per porre rimedio all’ andazzo che distrugge, tra l’altro, quel settore non proprio irrilevante che è il terziario, nel Mondo (quel posto, per intenderci, a portata di clic) ci si sta attrezzando per cercare di invertire la rotta considerato che le madonne sui duomi e le piazze con i portici non sono più sufficienti a intercettare pubblico e/o utenti che sono i soggetti che, alla fin fine, producono quell’utile sterco del diavolo con il quale si comprano anche borsette di Hermes, t-shirt di Zara, libri di Guy Debord, biglietti per i concerti di Satie e le pieces di HÖlderlin.
I più mattacchioni tra i pubblici amministratori, quelli sventati e irresponsabili, si sono così messi a pensare al marketing (farsi illuminare, please, da quelli citati in apertura) per compiere quel misfatto irriverente che è la “vendita” del loro territorio che, dio mi perdoni, è visto come un prodotto che, in quanto tale, deve avere un brand, un marchio. Qualcosa per intenderci (da Kotler all’indimenticabile Gianpaolo Fabris, mi si permetta la banalizzazione) simile alla Coca Cola o alla Nike che si comprano perché danno più fiducia (ci piacciono) rispetto ai prodotti concorrenti. Il brand, l’identità unica e competitiva di una città, non si costruisce con un evento ma questo può essere un punto di partenza, uno strumento per creare un progetto da implementare e valorizzare con idee, comunicazione, creatività per posizionare la città internamente e a livello internazionale come una buona destinazione per il commercio, il turismo e, perché no, gli investimenti.
In poche parole, per attivare – si badi bene - un processo culturale che attribuisca un significato anche economico a tutte quelle componenti immateriali che compongono la nostra storia (in America quei birbanti la chiamano show) e il nostro presente e che rischiano seriamente di finire, se non lo sono già, sotto quegli strati di polvere accuditi con amore dai sacerdoti del démodé snob-business.

Per approfondire
http://www.festivaldellamente.it/effetto_festival.asp

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