Ben 1300 eventi titolati "Festival" vengono promossi ogni anno in Italia con 9milioni complessivi di visitatori, in prevalenza di sesso femminile, 60% laureati, con forte propensione ai consumi culturali tradizionali (libri e teatro) e la tendenza a partecipare in gruppo. Ma il Vasto Film non c'entra niente
La formula festival negli ultimi decenni ha conosciuto uno sviluppo eccezionale, attirando l'attenzione di media, professionisti della cultura e del turismo, studiosi e ricercatori. Ma che cos'è un festival?
A dare una prima risposta ai tanti quesiti che ancora oggi ci sono sul fenomeno, è stato Guido Guerzoni, docente di Economia e management delle istituzioni culturali all'Università Bocconi e di Economia dello Spettacolo allo Iuav di Venezia. A lui è stata affidata l'indagine "Effettofestival. L'impatto economico dei festival di approfondimento culturale", edita da Strumenti e voluta dalla Fondazione Cassa di Risparmio della Spezia, presentata l’altra sera a Milano, al Circolo della Stampa. All'incontro, oltre a Guerzoni, hanno partecipato: Marco Cammelli, presidente della Commissione Beni Culturali dell'Acri e della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, Giulia Cogoli, direttore del Festival della Mente di Sarzana (La Spezia), Gian Arturo Ferrari, direttore generale della Divisione Libri del Gruppo Mondadori, Stefano Mauri, presidente e amministratore delegato del Gruppo editoriale Mauri Spagnol, Matteo Melley, presidente della Fondazione Cassa di Risparmio della Spezia, il quale ha sottolineato l'importanza del tema per le Fondazioni bancarie.
A ribadire il cambiamento del ruolo di queste ultime, che da semplici erogatori stanno entrando nel vivo della progettazione culturale, sono stati gli stessi presidenti, che hanno ricordato come le stesse ogni anno erogano all'incirca mezzo miliardo di euro, parte dei quali è destinata alla produzione di mostre ed eventi culturali.
Malgrado non sia stata ancora elaborata una chiara definizione di festival, nel corso del tempo il format si è ritagliato un suo profilo. Si tratta di una manifestazione che ha una continuità storica, con un preciso tema culturale, con eventi concentrati in un tempo e luogo precisi, appositamente concepiti per un pubblico non specialistico. Insomma, la scrematura da fare a riguardo è tanta. Basti pensare che, basandosi su questi parametri, Guerzoni tra tutti i cosiddetti festival, ne ha presi in considerazione 27.
"L'offerta si è talmente allargata che è arrivato il momento di fare una cernita e difendersi da chi si improvvisa" ha sottolineato il docente. "L'analisi di impatto - che tiene in considerazione gli effetti, sociali, culturali, economici, fiscali, occupazionali, ambientali e immobiliari - è fondamentale ora che ai finanziatori pubblici si affiancano sponsor privati. Se un festival funziona, il ritorno c'è." Eccome. Basti prendere in considerazione i dati inerenti il contributo offerto dai festival alle economie locali. Mantova e Sarzana in primis. La case history del Festival della Mente di Sarzana (quest'anno alla 5° edizione) dimostra che lo scorso anno con 31mila presenze monitorate, partendo da un investimento di 480mila euro l'impatto economico valutato è stato di 4 milioni circa. Un successo dettato da tanti fattori, ma soprattutto dalla qualità dei contenuti e dalla professionalità e dall'esperienza degli organizzatori.
"Per la buona riuscita di un Festival - ha sottolineato Giulia Cogoli - non ci si può improvvisare. Bisogna nascere piccoli per crescere. È necessario radicarsi sul territorio, lavorare sul tessuto urbano. Se non c'è unione e collaborazione con le realtà cittadine, ci si perde per strada."
E il libro, gli editori cosa c'entrano in tutto questo? "Molto. Malgrado l'era virtuale non dobbiamo sottovalutare questo antico mezzo di comunicazione che rimane ancora oggi il principale prodotto di consumo culturale italiano, seguito con ampio margine da video, cinema e musica" ribadisce Stefano Mauri. "In Italia, negli ultimi dieci anni," ha proseguito Gian Arturo Ferrari "è aumentata la familiarità con i libri, anche se ben due terzi della popolazione adulta non ha alcun rapporto con esso. Il libro è un bene ricercato da una minoranza esigua della popolazione, ma malgrado questo l'Italia detiene il 4° posto nel mercato europeo del libro e il 6° mondiale."
27 agosto 2010
NO BRAND NO MONEY
Dopo aver letto la levata di scudi dell’Assessore locale contro la spettacolarizzazione della cultura bisognerebbe far sapere al vispissimo sindaco di Firenze Renzi, a quello saggio di Torino Chiamparino, all’audace Vincenzi di Genova e, perché no, all’innovativo governatore pugliese Vendola e all’immarcescibile Dellai del Trentino, tanto per restare in un’area politica omologa, che il brand del territorio è, dalle nostra parti, carta straccia. Così come sono peregrine le idee che hanno portato le amministrazioni di tutta Italia (maestre quelle francesi e tedesche) a fare a gara per inventarsi eventi che più spettacolari non si può per finire sui giornali e sulle televisioni e attrarre spettatori perché, volenti o meno, funziona così.
Mal gliene incolse quindi a Mantova che invece di darsi al gonzaghismo spinto si è buttata sulla letteratura facendo arrivare in città qualche centinaia di migliaia di visitatori per ascoltare un Barrico o un Yehoshua qualsiasi. O a Sarzana, un cittadina ligure nello spotlight per il fatto di saper trascinare ogni anno nella fortezza sin lì sottoutilizzata, filosofi (e ascoltatori) da tutto il mondo per discutere, mangiando la sfarinata, le possibili sorti dello stesso. Per non parlare della Valle d’Itria che sarebbe un cumulo di trulli e masserie fatiscenti (sul mercato oggi da 3 mila euro a mq) se non avessero considerato di portarvi le maggiori orchestre del mondo ad eseguire Verdi, di mettere gli Steinway nei cortili, i violini nei vicoli e dibattiti e incontri, letture e danze, a ogni angolo delle case bianche. Senza andar troppo lontano, nemmeno Pordenone sarebbe uscita dal cono d’ombra della Zanussi-Elettrolux se non ci fosse stata l’intuizione di portare in corso Garibaldi Avoledo e celebrities come il sommo Philip Roth e un festival del cinema muto di cui si discetta in tutto il mondo. Che questo paese sia quindi impazzito? Quale delirio spinge amministratori, associazioni e privati a promuovere festival ed eventi che, inevitabilmente, a un certo punto mostreranno la corda, come giustamente prevede il Nostro Amministratore, e che richiederanno un ulteriore sforzo creativo per mantenere la loro attrattività?
E’ che nell’aria, da tempo, aleggia una tendenza cupa globalizzata (non è una parolaccia) che porta anche i ragazzini a messaggiarsi per incontrarsi nei centri commerciali, che svuota le città a favore di non-luoghi che appaiono e scompaiono, che rende poco divertenti i mercatini delle pulci, che invita a vedere le partite solo in TV o ad andare solo dove sono previste 100 mila presenze.
Questo succede, e per porre rimedio all’ andazzo che distrugge, tra l’altro, quel settore non proprio irrilevante che è il terziario, nel Mondo (quel posto, per intenderci, a portata di clic) ci si sta attrezzando per cercare di invertire la rotta considerato che le madonne sui duomi e le piazze con i portici non sono più sufficienti a intercettare pubblico e/o utenti che sono i soggetti che, alla fin fine, producono quell’utile sterco del diavolo con il quale si comprano anche borsette di Hermes, t-shirt di Zara, libri di Guy Debord, biglietti per i concerti di Satie e le pieces di HÖlderlin.
I più mattacchioni tra i pubblici amministratori, quelli sventati e irresponsabili, si sono così messi a pensare al marketing (farsi illuminare, please, da quelli citati in apertura) per compiere quel misfatto irriverente che è la “vendita” del loro territorio che, dio mi perdoni, è visto come un prodotto che, in quanto tale, deve avere un brand, un marchio. Qualcosa per intenderci (da Kotler all’indimenticabile Gianpaolo Fabris, mi si permetta la banalizzazione) simile alla Coca Cola o alla Nike che si comprano perché danno più fiducia (ci piacciono) rispetto ai prodotti concorrenti. Il brand, l’identità unica e competitiva di una città, non si costruisce con un evento ma questo può essere un punto di partenza, uno strumento per creare un progetto da implementare e valorizzare con idee, comunicazione, creatività per posizionare la città internamente e a livello internazionale come una buona destinazione per il commercio, il turismo e, perché no, gli investimenti.
In poche parole, per attivare – si badi bene - un processo culturale che attribuisca un significato anche economico a tutte quelle componenti immateriali che compongono la nostra storia (in America quei birbanti la chiamano show) e il nostro presente e che rischiano seriamente di finire, se non lo sono già, sotto quegli strati di polvere accuditi con amore dai sacerdoti del démodé snob-business.
Per approfondire
http://www.festivaldellamente.it/effetto_festival.asp
Mal gliene incolse quindi a Mantova che invece di darsi al gonzaghismo spinto si è buttata sulla letteratura facendo arrivare in città qualche centinaia di migliaia di visitatori per ascoltare un Barrico o un Yehoshua qualsiasi. O a Sarzana, un cittadina ligure nello spotlight per il fatto di saper trascinare ogni anno nella fortezza sin lì sottoutilizzata, filosofi (e ascoltatori) da tutto il mondo per discutere, mangiando la sfarinata, le possibili sorti dello stesso. Per non parlare della Valle d’Itria che sarebbe un cumulo di trulli e masserie fatiscenti (sul mercato oggi da 3 mila euro a mq) se non avessero considerato di portarvi le maggiori orchestre del mondo ad eseguire Verdi, di mettere gli Steinway nei cortili, i violini nei vicoli e dibattiti e incontri, letture e danze, a ogni angolo delle case bianche. Senza andar troppo lontano, nemmeno Pordenone sarebbe uscita dal cono d’ombra della Zanussi-Elettrolux se non ci fosse stata l’intuizione di portare in corso Garibaldi Avoledo e celebrities come il sommo Philip Roth e un festival del cinema muto di cui si discetta in tutto il mondo. Che questo paese sia quindi impazzito? Quale delirio spinge amministratori, associazioni e privati a promuovere festival ed eventi che, inevitabilmente, a un certo punto mostreranno la corda, come giustamente prevede il Nostro Amministratore, e che richiederanno un ulteriore sforzo creativo per mantenere la loro attrattività?
E’ che nell’aria, da tempo, aleggia una tendenza cupa globalizzata (non è una parolaccia) che porta anche i ragazzini a messaggiarsi per incontrarsi nei centri commerciali, che svuota le città a favore di non-luoghi che appaiono e scompaiono, che rende poco divertenti i mercatini delle pulci, che invita a vedere le partite solo in TV o ad andare solo dove sono previste 100 mila presenze.
Questo succede, e per porre rimedio all’ andazzo che distrugge, tra l’altro, quel settore non proprio irrilevante che è il terziario, nel Mondo (quel posto, per intenderci, a portata di clic) ci si sta attrezzando per cercare di invertire la rotta considerato che le madonne sui duomi e le piazze con i portici non sono più sufficienti a intercettare pubblico e/o utenti che sono i soggetti che, alla fin fine, producono quell’utile sterco del diavolo con il quale si comprano anche borsette di Hermes, t-shirt di Zara, libri di Guy Debord, biglietti per i concerti di Satie e le pieces di HÖlderlin.
I più mattacchioni tra i pubblici amministratori, quelli sventati e irresponsabili, si sono così messi a pensare al marketing (farsi illuminare, please, da quelli citati in apertura) per compiere quel misfatto irriverente che è la “vendita” del loro territorio che, dio mi perdoni, è visto come un prodotto che, in quanto tale, deve avere un brand, un marchio. Qualcosa per intenderci (da Kotler all’indimenticabile Gianpaolo Fabris, mi si permetta la banalizzazione) simile alla Coca Cola o alla Nike che si comprano perché danno più fiducia (ci piacciono) rispetto ai prodotti concorrenti. Il brand, l’identità unica e competitiva di una città, non si costruisce con un evento ma questo può essere un punto di partenza, uno strumento per creare un progetto da implementare e valorizzare con idee, comunicazione, creatività per posizionare la città internamente e a livello internazionale come una buona destinazione per il commercio, il turismo e, perché no, gli investimenti.
In poche parole, per attivare – si badi bene - un processo culturale che attribuisca un significato anche economico a tutte quelle componenti immateriali che compongono la nostra storia (in America quei birbanti la chiamano show) e il nostro presente e che rischiano seriamente di finire, se non lo sono già, sotto quegli strati di polvere accuditi con amore dai sacerdoti del démodé snob-business.
Per approfondire
http://www.festivaldellamente.it/effetto_festival.asp
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